Tecnica-cultura

 

Matteo Candido *

01.12.2010

‘Una cultura che non ha lo scopo di interferire sul lato tecnico del progetto, ma di tener vigile ed efficiente nel tecnico la coscienza cristiana lungo tutto lo svolgersi del progetto’.

A questo brano del mio breve  scritto pubblicato su Djitu-Ten del dicembre 2009,  faccio alcune aggiunte, che possono servire per  una maggiore fuoca-lizazione del concetto.

La tecnica ha la sua dimensione concreta ed oggettiva, e le sue esigenze  specifiche vanno riconosciute e rispettate, per non far cadere l’azione nel pressappochismo o nell’inconcludenza o nel danno.

L’efficienza tecnica entra perciò intrinsecamente  nell’onestà-rettitudine dell’attività professionale. E qui la cultura non ha niente da dire, e non può che sposare in pieno la scienza, riservandosi semmai solo il ruolo esterno di vigilare a che tale efficienza sia salvaguardata da ingerenze esterne.

Ma c’è un <alone> dell’azione professionale, per i possibili effetti indiretti e collaterali, che sappiamo tutti toccare l’ambiente o le persone, su cui la cultura non può tacere e l’obbliga ad intervenire. Tali effetti collaterali tolgono all’attività la sua dimensione esclusivamente tecnica, sconfinando essa nell’umano, nel sociale e nell’ecologico. E la cultura interviene prima che lo faccia la legge, la cui azione è in prevalenza ‘a posteriori’, quando cioé il danno è già prodotto. La cultura agisce fornendo alla coscienza del tecnico quegli elementi utili alla sua sensibilità concreta e  immediata in cui va a concretizzarsi quella generale che si presuppone già in lui  presente, mantenendo coscienziosa e retta la sua azione di tecnico nel suo attuarsi.

Possono apparire disquisizioni sottili, e un po’ ostiche per chi vuole andare  al sodo. E può anche essere, ma ciò che vien qui indicato non sfugge di certo alla coscienza di chi sente d’istinto la saggezza umana, e non abbisogna né di tante parole, né di ragionamenti complicati per coglierne le sfumature e capirne la sostanza vera.

E’ un discorso che riguarda direttamente il singolo operatore, che si sa però non essere mai solo nella sua azione professionale, ma agente all’interno di un’équipe o nell’ambito di un’impresa. E allora il ragionamento di allarga, coinvolgendo la vasta realtà economica e  politica, dove l’esecutore finale non ha voce in capitolo, anche se non credo possa esentare del tutto la sua responsabilità a livello esecutivo quando egli  sa che la valutazione e la  decisione a monte, gli risulta errata o per lo meno ingiusta.  23.1.2010

 

Tecnica-cultura.2

 

Basandomi sulla gentile attenzione portata su alcuni miei concetti, e sperando di non abusare della sua pazienza, vengo a concludere , signor Mazzotto, quanto detto  in ‘Tecnica-Cultura.1’ -che approfondiva un aspetto della problematica, riguardante l’animo del tecnico nel suo muoversi nel Terzo Mondo- con un nuovo approfondimento che tocca invece l’impatto dell’azione ‘sul campo’.

Negli anni Sessanta un missionario, proprio della Guinea-Bissau (allora si chiamava ancora Guinea Portoghese), raccontava questo fatto capitatogli in missione. Un giovane, sentitosi umiliato da un bianco, forse lo stesso missionario, che gli rinfacciava la neghittosità o la poca iniziativa, decise di dimostrare che non era vero, piccato che ciò venisse imputato a qualcosa di etnico o di tribale. Egli si recò  in Europa e si laureò. E poi ritornò al villaggio, riprendendo in pieno la vita di prima. Si fece ritrovare da chi lo aveva sfidato disteso sotto un baobab a ‘far niente’.

Erano gli anni del boom del Volontariato Internazionale, che portarono molti giovani europei nel Terzo Mondo a ‘dare una mano’ ai popoli apertisi da poco all’indipendenza e alla democrazia. Scesero in Africa con ogni mezzo: vennero anche con i trattori,  per dare una svolta decisiva alla agricoltura. Trovandoci un sistema di aratura, fatto di bastoni trainati da uomini o animali, misero in essere l’azione potente di capaci aratri, che segnarono solchi molto profondi. Risultati? Un fallimento! L’aratro aveva portato in superficie la parte profonda di terra, quella priva di humus e gettato in profondità quella superficiale che sola garantiva la crescita del seminato.

Sono due episodi,  che permettono di andare un po’ addentro in quell’ <umano> che abbiamo detto spetti alla cultura garantire, nell’orientare in modo opportuno il lavoro tecnico.

La vita di ogni persona è un totum che riappare ogniqualvolta una singola nascita (anzi concepimento) porta sul vasto scenario del mondo un essere umano; un totum che si manifesta variegato a seconda degli spazi e dei tempi di apparizione. Lo spazio e il tempo segnano di un marchio proprio e irripetibile quell’umanità –singola ma totale-  che si presenta, trovandovi  i modi e i mezzi necessari perché tale umanità, totale ma ancora implicita nel singolo,  possa esprimersi  ed esercitarsi, proprio  in quel tempo e in quel luogo. Tali espressioni ed esercizi, pur essendo tutti umani diventano specifici solo di quei luoghi e di quei tempi, quindi sono particolari e limitati, non esprimenti cioè tutte le potenzialità che ogni singola umanità porta con sé venendo al mondo. E quello che non è espresso in un tempo o in un luogo, viene espresso in altro tempo e in un altro luogo; come quello che viene espresso qui in questo modo e con questo mezzo, viene espresso altrove diversamente, ma sempre estraendo dal ‘fondo infinito’ di quel totum che costituisce la medesima umanità.

Lasciamo stare, per il momento, la possibilità che il singolo essere traligni,  in questa sua espressione ed esercizio personali dell’umanità che porta in sé: ogni diversità realizzata ha da essere accettata e rispettata. Ricercata anzi, perché esprime e completa quell’umanità che in altri luoghi e tempi non ha potuto esprimersi, dato che in ogni occasione e ad ogni singolo non è dato di farlo che  in modo limitato. Il modo limitato e parziale rappresenta, per chi ci è cresciuto e ci vive, tutta l’umanità a lui nota. E siccome di fatto non ne conosce altre forme e ne vede l’indispensabilità per la sua quotidianità umana, la sua privazione la vedrebbe come un vuoto intollerabile e chi lo causa un attentatore violento. Il locale è pronto perciò a combattere, come azione ‘disumana’ quella che, venendo dal di fuori o solo perché è diversa, turba il normale decorrere della umanità particolare in cui egli vive.

Tutto questo può benissimo essere colto e capito d’istinto pensando a ciò che avviene comunemente anche da noi: in ogni casa c’è uno stile particolare, vi si adottano delle usanze specifiche, e chi  viene da noi in visita non si meraviglia di tali particolarità e ne rispetta anzi i ‘paletti’ se intende muoversi con educazione.

In sostanza quando si va dagli ‘altri’ è buon senso e pura educazione riconoscere che in casa sua ognuno ha il diritto di starci come vuole, e non spetta a chi viene da fuori criticare o imporre regole in casa altrui.

<Ma noi andiamo ad aiutarli. Essi hanno bisogno. Non sono in grado di farcela da soli!>

Quest’intenzione, buona e auspicabile non di rado però è accompa-gnata, senza che spesso ce ne avvediamo, da un complesso di superiorità. Ci sentiamo portatori di una umanità superiore, di fronte a cui quella che andiamo ad aiutare ci appare raggrinzita e immiserita. E quindi sentiamo che spetti a noi soli decidere ciò che loro manca, ciò che c’è da togliere e ciò che c’é da mettere.

Dimentichiamo così che in tutti gli uomini e in tutti i popoli c’è la stessa umanità di fondo, con la stessa valenza, anche se ha  una espressione determinata, perchè risponde, come la nostra,  al posto e al tempo in cui ci è espressa, con, in più, i portati positivi e negativi della storia.

La prima cosa che c’è da fare allora è cogliere l’universale che c’è nella espressione determinata di umanità, che incontriamo, e rispettarla e valorizzarla. Scoprire in essa anche ciò che nella nostra  è carente, perché anche la nostra, quando non fosse negativa, è pur sempre limitata, e dunque bisognosa di completamento.  E se la nostra umanità ha qualcosa che serve o  è utile alla loro, va loro presentata innestandola nella loro umanità.  E se scorgiamo che c’è qualcosa da cambiare o migliorare in essa, perché anche essa è parziale, va fatto senza pregiudicare ciò che in tale umanità  esprime l’umano nella sua forma universale.

Si sa che queste determinazioni umane particolari, non sono sempre prive di deformazioni, a causa delle vicende storiche, e che intaccano perciò l’universalità dell’umano, e che perciò, sono negatività, e vanno eliminate. Ma a far questo i primi addetti sono gli autoctoni, ed è solo  attraverso i saggi autoctoni che è possibile un’azione dall’esterno che possa risultare positiva.  I nostri interventi tecnici che rispondono alla nostra umanità particolare, essendo legati ai nostri luoghi e portando con sé la  nostra storia, non è detto che siano incompatibili con le persone o con i luoghi  che avviciniamo nella nostra volontà di aiuto;  ma vanno innestati in un nuovo tutto, che è un insieme  di universale e di locale, con un’azione da farsi in sintonia con chi è inserito carne e ossa nel quotidiano vivente locale.

Portare loro i nostri prodotti, le nostre strutture, i nostri stili – che per noi ovviamente sono normali e ben innestati sul nostro insieme di civiltà – senza valutarne l’impatto e gli effetti che si possano causare sulle strutture e sugli abitanti  è da scriteriati e da maleducati. Non è detto che non si possano innestare, perché sono loro stessi che ce lo chiedono, ma lo dobbiamo fare con loro seguendo la loro mentalità e civiltà. In una ricerca delle modalità più efficaci e arricchenti, sia per noi che per loro, in un rispettoso confronto di strutture e di costumi, i nostri e i loro, in vista di un possibile traguardo, quello di raggiungere, nello scambio,  una espressione di umanità più completa di quanto finora è  stato possibile nelle diverse aggregazioni e coordinazioni avutesi nell’intero pianeta.

Ho concluso, signor Mazzotto. Ma con questo non ho inteso che rispondere all’appello che ho letto in Djitu Ten del settembre 2009, dando il mio contributo a ‘…mettendoci insieme, studiare per dare vita a un progetto, ambizioso e lungimirante, che consenta di capire perché un paese, la Guinea Bissau, non decolla anzi, per certi versi, è sempre più impantanato; che consenta, senza preconcetti  e  senza formule pre-confezionate, di ascoltare per capire i problemi e stendere poi un’ipotesi di progetto nei più svariati campi: medico, culturale,agricolo, artigianale’

(4.2.2010)

Saluti 

Matteo Candido

* Pedagogo italiano, amigo da Guiné-Bissau.

 

A VISÃO, GESTA, JURAMENTO E MORTE DE AMILCAR CABRAL 20.03.2010 Fernando Jorge P. Teixeira

 


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